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SOCIALISMO REALE

 

 

 

 

 

 

Si spegneranno presto i riflettori sul Tibet del Dalai Lama, novello fomentatore di violenze, a sentire le autorità cinesi. Le telecamere si sposteranno sugli stadi e le piscine di Pechino. Tutto resterà com'è. Comprese le cicale del nostro belpaese che adesso fanno ridicole proteste attorno alle ambasciate cinesi e attaccano la repressione contro i tibetani dalle colonne dei loro giornali, scimmiottando con scarsi risultati la stampa liberal d'oltreoceano. Ancora una volta è il daltonismo la malattia che sembra contagiare senza pietà gli occhi dei commentatori nostrani che fanno a gara ad omettere (qualcuno si ricorda ancora del Myammar?) il colore del carnefice, confondendolo con quello della vittima.

Il Dalai Lama ha definito "genocidio culturale" quello che sta avvenendo in Tibet. Non solo repressione dunque ma anche l'incoraggiamento alla maggioranza dell'etnia Han di migrare tra gli altopiani himalayani per una "rieducazione culturale", con il risultato che adesso quest'ultima occupa la gran parte della regione e i popoli autoctoni sono stati costretti a migrare in massa. Si stima che i cinesi forzatamente fatti immigrare in Tibet siano oltre 7 milioni e mezzo contro i 6 milioni di tibetani. Bugie di regime: le autorità affermano che il 92% del Tibet è abitato da tibetani, un paese etnicamente puro insomma, da fare invidia alla Svezia. 50 anni di investimenti per lo sviluppo di questa sciagurata regione non hanno superato i 4 miliardi di dollari utilizzati soltanto per costruire la ferrovia che collega Lahsa a Pechino per permettere ai cinesi di colonizzare quelle terre con più facilità. Una "grande opera" che non solo ha accellerato la cinesizzazione della regione ma è costata numerose vite umane e disastri ambientali.

 

La rivolta avviene adesso non per caso: il 19 Marzo del 1959 il Tibet si sollevo contro l'invasione cinese iniziata nel 1949-50, da allora il Dalai Lama è ospitato, assieme al governo tibetano legittimo, in esilio in India. Adesso il partito comunista cinese si permette perfino di decidere chi è la nuova incarnazione del leader tibetano, sostituendo il Lama originale (un ragazzino di cui non si hanno notizie dal 1995) con un Lama farlocco, figlio di un funzionario del partito comunista. L'ultima goccia che ha fatto traboccare il vaso della protesta è stato il rifiuto dato agli atleti tibetani di gareggiare a Pechino con l'insegna del loro popolo. Chi vorrà correrà sotto la bandiera della Repubblica Popolare. Ovviamente nessuna obiezione è piovuta dal comitato olimpico internazionale e dal suo presidente Jacques Rogge, che ha dichiarato che nessun governo si è espresso a favore del boicottaggio delle olimpiadi per la questione tibetana. The show must go on: la torcia olimpica continua la sua corsa e passerà presto attraverso il Tibet in Giugno, con o senza monaci a fare da spettatori.

L'unico segnale che si poteva dare al regime di Hu Jintao non sarà dato: le olimpiadi non saranno boicottate, e pensare che sarebbe stato l'unico modo per mantenere i riflettori accesi sulla Cina comunista e repressiva di cui tutta la comunità internazionale fa finta di non ricordarsi. Tutto si svolgerà secondo i piani dunque, salvo defezioni personali di singoli atleti. L'errore di fondo è, ancora una volta, quello di credere che lo sviluppo economico e il mercato globale sia possibile senza la libertà. La Cina nel Wto, la Cina che produce e vende all'Occidente in recessione, la Cina che inquina con il beneplacito dell'Europa che ha ratificato Kyoto e si scaglia contro gli Usa perchè tentano di competere alla pari e di non arrendersi come Bruxelles. I nostri euroburocrati sono stati rapidi a riconoscere l'indipendenza del Kosovo ma restano immobili sulla questione tibetana. Tutto come da copione insomma: forti con i deboli e imbelli con chi punta la pistola alla tempia della nostra economia, in una rulette russa in cui a perdere non sarà solo il futuro del nostro Occidente (sempre più tafazziano) ma anche la libertà di cui dovremmo essere i portabandiera nel mondo. Altro che fiaccola.

D.M.