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L'OSSESSIONE ESTETICA PER LA SCONFITTA

La storia, si sa, la scrivono i vincitori. Ai perdenti, tuttavia, se sono stati capaci di essere protagonisti di una disfatta particolarmente eroica, furiosa, totale e disperata talvolta viene concessa l’eredità della leggenda. Quale pagina di storia è meglio della Guerra di Secessione Americana per inziare il nostro viaggio attraverso la gloriosa sconfitta?
Forse non lo sapeva ancora, Robert Lee, generale dell’armata sudista nella guerra di secessione americana, che icona avrebbe rappresentato per molte generazioni a venire. Il vecchio comandante "chiese tempo, ci penso sopra due giorni. Poi, la ragione prevalse sull’orgoglio". L’idea di capitolare lo ripugnava profondamente. La sua armata della Virginia aveva combattuto e resistito contro ogni più lusinghiera previsione: a sorreggere quel manipolo di soldati in uniforme grigia non era il dovere di combattere, nè l’obbligo di obbedire ad un ordine. Era un’idea a confortarli, l’idea di un mondo per i cui valori era giusto morire; dimostrare fino in fondo il proprio disperato coraggio rappresentava nient’altro che un doveroso tributo. La mattina della resa era il 9 aprile (1865 n.d.r).

 

Ce lo racconta uno splendido volume della Leonardo Facco Editore, "Dalla parte di Lee": "i soldati blu videro avanzare verso le loro linee un sottufficiale sudista a cavallo, con una piccola bandiera bianca che il vento faceva sbattere. Sul fronte cadde, di colpo il silenzio. Fu così improvviso e così profondo che migliaia di testimoni se lo ricordarono per decenni come una delle sensazioni più intense di quella lunga, crudele e fragorosissima guerra. Il sottufficiale recava un messaggio: Lee stava aspettando Grant all'Appomattox Court House. Si era messo in alta uniforme, la giubba perfettamente stirata, cinta al fianco la spada di gala. Nell'attesa, chiacchierava tranquillamente con il padrone di casa: sembrava il ritratto perfetto dell'aristocratico del Sud, l'immagine stessa di un mondo che, quel giorno, tramontava". Quello di Lee era un mondo che mai avrebbe potuto vincere, era un mondo che resisteva al futuro, che quel giorno firmava la propria resa ma che, tuttavia, capitolava a testa alta.

La guerra di secessione americana diventava mito. La bandiera confederata un simbolo che da allora sarebbe andato oltre ogni rievocazione storica, per essere adottato come icona per un intero sistema di valori.
"Quasi uno slogan quella frase pronunciata da Clark Gable in Via col Vento: ho sempre avuto un debole per le cause perse, quando sono proprio perse".
Qualche tempo fa, parlando con Gabriele, il nostro Direttore, mi disse che l'essere "contro" non è vezzo ma si trasforma in un inevitabile percorso umano. Inevitabile, perchè solamente quando è tragica, assoluta ed eroica la sconfitta sublima chi ha perso e rende immortale quel qualcosa: sia essa una battaglia, un grande personaggio o perfino una storia d'amore. (Una ragazza una volta mi confesso: "i più grandi amori finiscono sempre").
Nella sublimazione estetica della sconfitta (e dello sconfitto) la vittoria è sempre un plus per la quale spesso non si è pronti, se non per rendere l'onore delle armi a chi abbiamo battuto.

Il nostro sempre ottimo Jimmy Landi, cita spesso nei suoi articoli un volume, o meglio, un "manuale", come si diceva ai tempi della scuola, tanto denso di spunti da farti girare la testa. Si tratta di "Fascisti immaginari" di Luciano Lanna e Filippo Rossi. Scorriamo le voci e, a rappresentare al meglio la lettera "esse", troviamo la parola "Sfiga": la "sfiga è di destra". Appena l'ho letto non ho avuto alcun dubbio: mai definizione fu più azzeccata. Sempre in bilico tra quel sottofondo di malinconia e l'orgoglio di non mollare mai, la destra per decenni ha attraversato una condizione per cui la sconfitta non era vista come un incidente di percorso ma la sua inevitabile conclusione. Ci si arrende solo quando sopravviene la fine fisica, ma anche questa diventa la "bella morte", come insegno Yuko Mishima.
A Destra ci si sente così parte del proprio tempo e contemporaneamente così diversi. Ci si crogiola nel piacere di non essere compresi e di essere studiati come un fenomeno curioso e forse un po inquietante.
La decadenza diventa un valore non negoziabile. Non ci sono modi di comprare questa essenza, nè di svendere certe idee e certi valori. Il declino è semplicemente inevitabile.

Rimanere in piedi in un "mondo in rovine. Darsi una ragione con "il tramonto dell'Occidente" rivendicare la "nobilità della sconfitta", cantare l'epopea dei vinti e il kulturpessimism, celebrare la capacità di andare sempre "controcorrente", essere sempre e comunque dalla parte della minoranza. Assaporare quel gusto particolare di sostenere una casua quando si è in mezzo a chi la pensa in maniera opposta, per poi lasciarla decadere a maggioranze invertite. Concetti di destra? Spirito di destra? La risposta è Sì. Come ci spiegano bene Lanna e Rossi, chi non si lamenta, nè percepisce le sirene del kulturpessimism puo vivere solo nel mondo degli eroi dei fumetti. Come Willy Coyote, il celebre personaggio a cartoni animati della Warner Bros in perenne caccia dello struzzo Beep Beep: "Willy incarna il paradigma del pessimismo attivo, lo spirito della creatività intraprendente in versione cartoon. Lui è un perdente, questo è sicuro. Uno sconfitto che pero non si stanca mai di combattere la propria battaglia personale. E' cattivo in modo così genuino da far tenerezza. E' la cattiveria agonistica. Senza ricompensa. Estetica. Una cattiveria non malvagia (...) Un po come suo cugino Gatto Silvestro, in perenne guerra (perduta) contro le sue prede: il canarino Tweety e il topo sovversivo Speedy Gonzales. Anche quel gatto, notava Oriana Fallaci sull'Europeo del 9 agosto 1973, piace particolarmente ai fascisti: Si rompe come un bicchiere, si disintgra come una bomba, poi si rialza tutto di un pezzo. Sì, Silvestro fa sempre così. E lo fa anche Willy Coyote, Che, pure lui, sa sempre sorridere alle avversità. E, con Nietzsche, ha una certezza: Cio che non ci abbatte ci rende più forti".

La cattiveria estetica è la chiave di volta: i cattivi perdono sempre. O meglio, nell'immaginario collettivo sono destinati a perdere. La malvagità agonistica di destra ha quindi inscritto nel Dna che qualcun'altro dovrà trionfare inevitabilmente al proprio posto.
E' qui che ha origine l'amore per il torto, per la causa persa. Come in un cartone animato, come Willy che cade nel canyon, sappiamo che ci precipiterà anche il pietrone in testa, una volta alzati gli occhi al cielo, ma tuttavia continuiamo a credere che sia giusto così.
Abbiamo letto libri di storia e favole scritte dai vincitori di ogni tempo che ci hanno convinto una volta ancora che identificarsi con lo sconfitto non è una follia ma una scelta di cuore. Sappiamo che il destino puo farci perdere ma sappiamo anche che solo chi perde in modo grandioso lascia il segno. E' vero, le cose che vincono continuano nel tempo, ma lo stesso perpetuarsi ha inscritto in sè un destino di normalizzazione e di banalizzazione; non è invece così per quelle cose bruscamente interrotte e spezzate: è a loro che vengono dedicate poesie, sogni e poemi, poichè la rottura provoca emozioni più forti che incidono e creano i sogni del "come poteva essere". Rialzandoci e ricominciando tutto da capo.

Come è accaduto al "nostro" Rudy Giuliani, favoritissimo della vigilia per la vittoria finale alle primarie Usa, ultima icona vivente dell'eroe dell'11 settembre, sconfitto banalmente da strategie sbagliate messe a punto da sciagurati consulenti. Una sconfitta senza appello: il tempo, nella sua accezione di contemporaneità, batte ancora gli eroi. Ai grandi uomini vengono preferite le persone normali. Battuto come il sogno dei NeoConservatori e del loro sogno di un mondo unipolare, di un conservatorismo di stampo compassionevole e della dottrina della guerra preventiva. Battutti ma già risorti (fortunatamente, a parer nostro) nell'appoggio al vecchio John McCain. Torneremo: ma che fatica reinventarsi sempre per essere accettati. E se fosse meglio non essere accettati? E se quella non-accettazione potesse divenire fonte d'originalissimo orgoglio?

Dovevano avere pensato così generazioni di uomini di destra all'improvviso spinti nelle fogne dopo un ventennio finito tragicamente. Il tramonto della Terza Via, della personalissima strada verso la felicità dei regimi fascisti usciti sconfitti dal secondo conflitto mondiale, alimento un'epopea di decenni di lotte (anche interiori) per il riconoscimento di una dignità. Dove tutt'attorno il mondo correva, si evoleva e la pensava diversamente, il post-fascismo si crogiolava nel ghetto e nella sua contro-cultura fatta di rituali, di musica alternativa, di pessimismo estetico, di glorificazione della sconfitta e desiderio di rivalsa. "Torneremo": chissà quando, chissà dove. L'idea del tornare fine a sè stessa, sempre presente.

Tra l'eterna sfida tra l'umano e il superumano non ci interessa l'effimera gloria della vittoria ma l'intangibile promessa dell'immortalità.
Solo attraverso la sconfitta, attraverso la Fine di un qualcosa possiamo attraversare quella sorta di Stargate che trasforma gesta qualcunque in gesta da ricordare.
Non importa guidare l'intero esercito della Virginia. Nè cadere da un Canyon, ma certamente importa rialzarsi tutti di un pezzo. Gli altri saranno ormai lontani ma noi avremo una bella storia da raccontare.
Dopotutto, come cantava Max pezzali qualche anno fa: "Gli altri segneranno pero, che spettacolo quando giochiamo noi".

D.M.