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Obamismo: nuove frontiere, vecchie illusioni

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nel novembre del 1992, a chi gli chiedeva se l'appena eletto Bill Clinton avesse i numeri per aspirare a essere considerato un nuovo John Kennedy, l'ex consigliere della sicurezza del presidente Carter, Zbigniev Brzezinski rispose: 'Speriamo che sia il nuovo Lyndon Johnson!". Il suo giudizio sulla reale portata della presidenza Kennedy, aveva dalla sua tutte le ragioni storiche possibili: la politica della "great society", inaugurata da Johnson, tento, se non altro, una sorta di ammodernamento della politica interna e internazionale americana e cerco di porre rimedio ai macroscopici errori commessi dal suo predecessore. A più di 40 anni dall'assassinio di John Kennedy, si ripropongono paragoni tra il primo Presidente cattolico degli USA e Barack Obama, candidato alle primarie democratiche e stella nascente della politica USA. E' necessario quindi uno sforzo per diradare le nebbie sulla figura mitizzata del martire democratico per eccellenza, icona americana e punto di riferimento di una certa sinistra mondiale, nonchè dell'amerikano Walter Veltroni.

"I feel change in the air": durante il celebrato endorsement verso Barack Obama il vecchio Ted Kennedy ha detto di percepire cambiamento nell'aria. Testimone vivente dell'ala più liberal dei democratici (la corrente più a sinistra, si direbbe da noi) l'appoggio del membro più in vista di quella che in molti hanno definito l'unica "famiglia reale" d'America è proprio cio che mancava al giovane candidato di colore per ricevere la legittimazione di parte dell'establishment del partito democratico, la cui nomenclatura (e i cui grandi capitali) sono per lo più schierati con Hillary. (Anche dentro la famiglia Kennedy, tuttavia, le posizioni sono diversificate: Caroline, figlia di John, per Obama, Kerry Kennedy, figlia di Bob, per Hillary). Barack Obama dimostra in ogni comizio una trascinante capacità oratoria e un notevole carisma da predicatore, doti che lo avvicinano a John Kennedy che è rimasto nella memoria collettiva grazie a decenni di film, tv, libri e mistero che hanno alimentato questo presunto mito che, nelle intenzioni del vecchio Ted, dovrebbe trovare un degno erede proprio nel popolare senatore dell'Illinois che ha fatto delle parole "Change" e "Hope" i tormentoni di una campagna, e "yes we can", lo slogan ripetuto fino alla nausea. Il sogno, la prospettiva e il cambiamento, l'altra faccia dell'America (chi l'ha mai detto poi che "l'altra faccia" sia sempre necessariamente la migliore...), con Obama il popolo dei sognatori americani che vive a pane e kennedismo, da decenni alla ricerca di un nuovo eroe a cui offrire un atto di fede, si sente finalmente "reborn democrat".

Disgustati dal washingtonismo della famiglia Clinton, Obama viene visto come il nuovo JFK che ci assicura che giorni migliori devono ancora venire. Come non credergli? Eppure quel "Yes We can" che scalda così i cuori sembra al tempo stesso così vuoto: possiamo cosa? Cambiamo cosa? E soprattutto, quello che accomuna Obama a Kennedy, è il non aver mai spiegato quale diavolo siano mai queste ricette per "cambiare". Come il "kennedismo", l' "obamismo" è atto di fede e, in quanto tale, non ammette repliche. Spesso le previsioni si possono fare guardando indietro nel tempo: i risultati di John Kennedy alla guida degli Stati Uniti furono talmente modesti, come ricorda Mauro dalla Porta Raffo nel suo libro "I signori della Casa Bianca", da fare apparire brillante perfino "Jimmy who?", l'incolore Carter. "Alla vigilia di Dallas, l'azione politica di Kennedy era a un punto morto e neppure la sua grande abilità nel manovrare i media sembrava poterlo salvare da una disfatta nelle elezioni in programma per il 1964. A voler essere gentili, gli anni della presidenza dell'uomo della Nuova frontiera furono ricchi di mille promesse ma decisamente poveri di fatti". Nel suo famoso discorso di accettazione della candidatura, JFK disse come l'America avesse bisogno 'di una guida e non di un venditore'. Kennedy aveva intuito le sfide degli anni '60, con coraggio e lungimiranza ma, paradossalmente, è proprio grazie alla sua retorica ispirata da un abile ghostwriter, alla sua leadership giovane e fresca, alla sua immagine sognatrice e, in sintesi, alla sua indiscussa abilità di 'venditore', che passerà alla storia come un mito. Continua l'autore: "Considerando l'operato di Nixon e gli scandali nel quale venne coinvolto e travolto, la campagna del 1960 si gioco forse tra i due peggiori candidati alla Presidenza USA dell'ultimo mezzo secolo". Eppure, nel 1960, Kennedy vinse.

Per decenni ci hanno spiegato che era grazie al suo carisma, alla carica di speranza, alla visione di una nuova "Camelot" che era capace di fare scorgere all'America intera. Quegli anni pero le cose andarono diversamente principalmente grazie ad un nuovo attore che si era inserito, prepotentemente e per sempre, nella storia mondiale: la Televisione. Se nel 1960 resistevano ancora scetticismi nei riguardi del mezzo televisivo, questi crollarono insieme alle chances di vittoria del candidato Nixon. Quello tra il Presidente del Watergate e JFK fu il primo dibattito davanti alle telecamere della storia americana. Cio che accadde in quei minuti cambio la storia: John Kennedy apparve abbronzato, sicuro e assolutamente telegenico. Nixon, senza trucco, indossava un abito chiaro che lo confondeva col fondo dello studio. Ai 75 milioni di spettatori apparve un uomo pallido ed esausto. La cosa incredibile è che coloro che ascoltarono per radio il dibattito non ebbero dubbi nell'attribuire la vittoria a Nixon. Ma erano solo 15 milioni, una assoluta minoranza. Subito dopo i risultati, alcuni analisti commentarono: senza la TV, Nixon ce l'avrebbe sicuramente fatta. Si disse che l'immagine trasmessa da Nixon sembrava quella "di un sacrestano di quelli che torcono l'orecchio ad un ragazzo dopo averlo espulso dalla chiesa", mentre altri lo paragonavano all'immagine "dell'avvocato delle ferrovie che firma contratti che non sono nell'interesse della gente". Ma il giudizio che rimase nella storia fu quello per cui il candidato Nixon era colui dal quale "non avresti mai comprato una macchina usata".

I giudizi storici su John F. Kennedy, lusinghieri nel 1960, saranno invece molto meno positivi negli anni a venire, che ne dica la sua bella immagine e il processo di mitizzazione della sua persona, iniziato prepotentemente dopo i tragici fatti di Dallas. In un'intervista dopo la morte del marito Jacqueline Kennedy racconto della passione di John per la leggenda di Re Artù e i Cavalieri della Tavola Rotonda, lanciandosi subito in spericolati paragoni: oggi come allora era un periodo "magico", durante il quale "uomini valorosi danzavano con donne splendide e grandi gesta venivano compiute (...) in cui artisti, poeti, scrittori erano invitati alla Casa Bianca e i barbari oltre le mura erano respinti". Mai ci sarebbe stata più un'altra "Camelot". Quale età dell'oro aveva visto Jacqueline? La stessa che probabilmente vedono ancora molti intellettuali, storici e politici in tutto il mondo, rimpiangendo un periodo del quale, a dire il vero, non ci sarebbe proprio niente da rimpiangere. In anni di lotte per i diritti civili, John Kennedy si guardo bene da porre all'attenzione del congresso la riforma sulla questione della segregazione razziale ancora presente in gran parte del Sud del paese. Nomino giudici segregazionisti a presiedere quattro corti federali del Sud e non riuscì mai a domare, nè a rispondere con la politica, alle violenze di piazza. Lo scarso interesse per le questioni interne lo porto a concentrarsi sugli esteri, in una frenetica e dissennata corsa al riarmo finanziata dalle casse dello stato, che avrebbe dovuto sollevare gradualmente l'intera economia.

Kennedy critico più volte Eisenhower per aver anteposto "la sicurezza fiscale" alla "sicurezza nazionale". Ma qual'era la ricetta della sicurezza nazionale di JFK? La tesi si basava su un assunto totalmente teorico e non dimostrabile: quello per cui l'Unione Sovietica avrebbe presto raggiunto, una netta superiorità in ambito missilistico. Gli USA sarebbero quindi stati vulnerabili a causa di questo presunto "missile gap". Fu così che il bilancio militare negli anni di Kennedy crebbe del 13%, presupponendo la strategia della "risposta flessibile": proporzionando cioè l'azione alla minaccia. Anche in questo caso la storia ci avrebbe presto svelato tutta un'altra verità: la proporzione reale tra le armi strategiche USA e quelle dell'ex URSS nel 1960 era di 8 a 1 in favore degli americani. La goffaggine della politica estera kennedyana ebbe il suo culmine nel pasticcio della Baia dei Porci: uno sbarco di esuli cubani anticastristi a Cuba per rovesciarne il regime. L'operazione si risolse con un clamoroso insuccesso e con una conseguente e prevedibile vittoria propagandistica per l'Unione Sovietica. Ma i tentativi, sempre più goffi, di assassinare Castro continuarono durante la presidenza di JFK tanto da provocare l'irritazione di Chruscev che decise di installare sull'isola cubana alcuni missili dotabili di testate nucleari. Kennedy rispose con un blocco navale: 13 giorni in cui il mondo fu vicino alla Terza Guerra Mondiale e che terminarono con l'impegno di Chruscev a ritirare i missili e di Kennedy di non immischiarsi più nelle questioni dell'isola.

Paradosso della storiografia postuma: la gestione di quelle vicende contribuì a costruire, negli anni a venire, un'immagine di John Kennedy come quella di un leader risoluto. La mentalità esclusivamente "bipolare" della politica di JFK porto ad una frattura insanabile anche in Europa: nel 1961, non a caso, Berlino venne divisa da un muro. Il trattato di messa al bando degli esperimenti nucleari nell'atmosfera, ratificato nel 1963 (poco prima della morte dei fatti di Dallas), ha sempre fatto gridare agli storici che si era messa in moto la fine della Guerra Fredda e che se Kennedy avesse avuto l'opportunità di terminare il proprio mandato sarebbe terminata anche la guerra nel Vietnam. Evviva. In realtà le prove che guardano in questa direzione sono assolutamente inferiori rispetto a quelle che vedono invece un Kennedy pienamente convinto della centralità del Vietnam nella geopolitica mondiale. Già da senatore ebbe a dire che il Vietnam era "la pietra angolare del mondo libero del sud-est asiatico. La chiave di volta dell'arco. Il dito nella diga". La realtà, al di là della leggenda, fu che Kennedy non si mosse mai da questa posizione: la convinzione che la caduta del Vietnam avesse potuto creare un effetto domino in tutta l'area (e nel mondo intero), venne accettata acriticamente dal giovane presidente. Kennedy lancio la scommessa del Vietnam come un fattore di credibilità da esibire agli alleati europei e ai governi del Terzo Mondo dove si stava sempre più spostando la sfida bipolare. La storia ci racconta quale fu l'immagine realmente trasmessa e quanto l'America si indebolì proprio a causa della scommessa dissennata di JFK: la "nuova frontiera" si era trasformata in un'illusione storica senza paragoni.

Perchè dunque nasce il mito? Le ragioni primarie vanno ricercate proprio nella brevità del suo mandato che ha finito per tramandare ai posteri un'immagine dai contorni quasi leggendari. Come tutte le cose che terminano anzitempo per cause esterne, la presidenza di JFK spezzata così tragicamente, lasciava presagire un completamento felice. Una sorta di inevitabile "happy ending". L'assunto che la morte di questo presidente abbia interrotto brutalmente un'altrettanta presunta "età dell'oro", che sarebbe stata lì in divenire, è tuttavia una falsità. come abbiamo visto c'erano ottime probabilità di un fallimento nelle elezioni del 1964, dopo 3 anni di politica molle sul piano interno e disastrosa nel piano internazionale. Per non parlare degli scandali (anche sessuali) che contraddistinsero quegli anni. Come per una rockstar, la popolarità di John Kennedy fu salvata dalla sua morte: da Dallas in poi il suo destino non sarebbe stato più quello di un mediocre presidente ma avrebbe assunto i contorni di una leggenda. La "Camelot" evocata da Jacqueline aveva davvero segnato un'epoca? No, ma nella memoria collettiva fu davvero così. Come disse Barack Obama qualche mese fa: "quando nei corridoi del congresso vedo i ritratti di tutti i presidenti degli Stati Uniti, capisco che solo una decina di loro hanno davvero ispirato una nazione, gli altri si sono limitati a dare il proprio meglio". John Kennedy, ha certamente ispirato una storiografia favolistica e generazioni di sognatori, ma non ha lasciato niente di tangibile nel suo paese, se non lacerazioni, errori imperdonabili ed una grande illusione. Per il bene degli Stati Uniti (e del mondo intero), auguriamo ad Obama sorte migliore.

D.M.