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Per un realismo politico liberale

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In un bell’articolo recentemente pubblicato dall’Istituto Bruno Leoni, il prof. Jacques Garello ha argutamente notato: “Prendete un buon liberale, perfino un ultrà del liberalismo, che ha sempre professato la propria preferenza per la libera impresa e il libero scambio. Parlate con lui della “crisi”. Converrà perfettamente sull’idea che essa è dovuta agli errori, o meglio alle malversazioni, operati dai responsabili della politica monetaria e finanziaria […] Ammetterà che il lassismo monetario della Federal Reserve ha diluito la responsabilità di quanti operano nella finanza. Se ha qualche conoscenza tecnica, sarà d’accordo sul fatto che la finanza è sovraregolamentata, con regole stupide come quelle di Basilea […]

Ma alla fine vi sorprenderà affermando
, con un qualche turbamento nella voce, che nel momento in cui la crisi c’è bisogna pur ricorrere ad un intervento delle finanze pubbliche. Bisogna salvare le banche dal fallimento, iniettando a tale scopo le liquidità monetarie necessarie, e per fare questo le banche centrali devono abbassare i tassi di interesse e gonfiare la massa monetaria”.

Quale che sia la causa del “trionfo keynesiano”, si tratta di una realtà difficile da ignorare e inevitabilmente, questo trionfo, deve costituire la premessa di ogni strategia volta a divulgare le virtù del mercato.
Se è storicamente consolidata l’assurda credenza popolare che associa crisi e capitalismo, ed è altrettanto diffusa l’erronea opinione che attribuisce al New Deal Roosveltiano il merito di aver sconfitto la grande depressione, in barba alle conclusioni di molti economisti, non possiamo esimerci da una serie di considerazioni sulle strategie divulgative delle idee liberali.

La prima considerazione da fare concerne una caratteristica peculiare della teoria economica liberale, ovvero la rilevanza del lungo periodo. Non unicamente nel senso del rilievo della stabilità nel lungo periodo, quanto piuttosto con riferimento ai tempi che il mercato impiega nei processi di riaggiustamento.
La seconda considerazione concerne l’importanza dell’“unitarietà” della teoria economica liberale, ovvero l’impossibilità di un gradualismo che riguardi la teoria economica. Entrambi questi punti, hanno determinato, per diverse ragioni, la fortuna divulgativa di Keynes e il “trionfo” di cui parla Garello.

Infatti, il liberalismo non può configurarsi, per la peculiarità descritta nella prima considerazione, come politica economica gradita ai policy-makers. La febbrilità che caratterizza le domande dei gruppi d’interesse in momenti di crescita e soprattutto in tempi di crisi, mal si sposa con l’austerità fiscale liberale. E, quando la crisi impazza, i tempi che il mercato impiegherebbe per i necessari riaggiustamenti, probabilmente non coincidono con i tempi che un governo ha a disposizione, specie nell’ottica di una futura rielezione.
“Ma questo lungo termine è una guida fallace per gli affari correnti: nel lungo termine siamo tutti morti”, faceva notare Lord Keynes, ben comprendendo, se non altro, le reazioni individuali ai periodi di crisi.

L’incertezza che la crisi diffonde si traduce puntualmente in una domanda di “Stato”; in certi casi poco importa come lo stato agisca, purché lo faccia. In questo senso il liberalismo, pur offrendo l’unica risposta adeguata alle crisi, non rappresenta una risposta adeguata all’esigenza di certezza, nel breve periodo, che gli individui sviluppano e che i governi devono assecondare nell’ottica di una rielezione.

La seconda considerazione affronta, invece, un altro tema cruciale, ovvero l’esigenza di definire chiaramente il libero mercato e le sue virtù, per evitare alcuni fraintendimenti che stanno alla base della “sfortuna” storica del capitalismo.
È bene chiarire, a tal proposito, che il funzionamento dei mercati e la “razionalità” del sistema dei prezzi in un’economia libera non possono prescindere da una politica monetaria liberale, e non possono coesistere con regole e istituzioni che incoraggiano l’azzardo morale (statale).
Insomma, il capitalismo a metà non funziona, non fosse altro perché non è capitalismo, eppure è puntualmente il principale indiziato in ogni crisi. L’ambiguità, insomma, continua a non giovare, e chiarire e delimitare sono, senza ombra di dubbio, strategie vincenti.

La fortuna politica del libero mercato nel ‘900 può essere circoscritta tendenzialmente a due casi: la presidenza Reagan e i governi della Thatcher. In entrambi i casi facevano da sfondo crisi economica e politica e, sia negli Stati Uniti sia in Inghilterra, una diffusa percezione del fallimento delle politiche di deficit spending. Condizioni di difficile ripetibilità alle quali aggiungere il carisma dei due leader e la fortuna che li ha accompagnati nel corso della carriera politica (si pensi ad esempio al caso delle Isole Falkland, determinanti per la rielezione della Thatcher).

Ma ci sarebbe stato spazio per la Thatcher in assenza di questo diffuso sentimento ostile alle politiche keynesiane che aggravavano progressivamente la crisi economica inglese? E in assenza di una crisi del partito conservatore? E cosa sarebbe stato il thatcherismo senza il secondo mandato di Margaret Thatcher? La risposta probabile alle prime due domande è negativa, mentre l’ultima ci aiuta a comprendere il problema del “lungo periodo” liberale. Senza quel secondo mandato, probabilmente, non esiteremmo a definire fallimentare l’esperienza liberale della Thatcher di cui oggi riconosciamo i salvifici benefici, e ancor più probabilmente, quell’esperimento, avrebbe sancito per lungo tempo l’inesorabile sconfitta del libero mercato.

Ma se il “lungo periodo” rende il liberalismo poco gradito
ai policy-makers, e se un governo liberale (qualora si affermi!), che non abbia il tempo di far maturare i frutti delle proprie politiche, rischia di sancire una brutale sconfitta mediatica del liberalismo, in cosa possono sperare i liberali?
In un certo senso, l’unica risposta plausibile è “gufare” Keynes nel tentativo di trarre, ex negativo, dei vantaggi.

“Gufare” intesa come attività non propriamente passiva, quanto piuttosto come costante attività informativa e divulgativa; insomma, acquistare e sfruttare quello stesso potere divulgativo che è mancato nel chiarire le responsabilità delle politiche monetarie, non esattamente liberali, o di Fannie Mae e Freddie Mac nell’attuale crisi.
Tuttavia, l'incisività di questa attività divulgativa sarà direttamente proporzionale alla capacità di delimitare e definire con precisione cosa sia il capitalismo e quali siano le virtù del mercato. Intanto, “oro pro nobis”...

Carlo Ludovico Cordasco