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Keynes: il vero teorico della terza via



Malgrado la favola raccontataci da statalisti ed intellettuali da salotto sinistroidi dipinga un mondo in preda al liberismo più sfrenato, i liberali autentici si rifiutano di mangiare la foglia. Ci vuole fegato per definire libero e privo di intervento statale un mercato in cui, al primo grido di lamento lanciato da una qualsiasi compagnia "too big to fail", l'Obama di turno con poteri economico-taumaturgici inonda il paese con una pioggia di milioni di dollari sfornati come cornetti caldi dai caveaux della FED, alterando il naturale alimentarsi del mercato e incoraggiando la caduta a picco della moneta con l'ovvio aumento dell'inflazione; ma questa, si sa, colpisce i soli contribuenti, il che sembrerebbe non turbare minimamente i governi.

Una definizione onesta per il mercato odierno, se proprio lo si può e lo si vuol catalogare, sembrerebbe piuttosto corrispondere a quella che conosciamo come teoria della terza via. La storia insegna infatti che non furono degli strampalati futuristi, né tanto meno le deliranti politiche economiche del ventennio fascista a lasciare in eredità al pianeta per i decenni a venire un'economia pianificata, a metà tra socialismo, ridistribuzione della ricchezza e difesa della proprietà e del capitale. Se "la fine del lassez-faire" va imputata a qualcuno, questi non è altri che John Maynard Keynes con il suddetto saggio del 1926, poiché mai nessuno si era spinto così lontano da riuscire ad espugnare con una teoria economica gli Stati Uniti, roccaforte della libertà.

Di sovente si parla di influenze di Marx sul pensiero keynesiano ma si eludono troppo spesso gli apprezzamenti dell'economista (o presunto tale) all'indirizzo delle tattiche socialiste niente meno che del Führer. Insomma, a ben guardare si rintracciano più agganci con il pensiero dei sansepolcristi che con quello propugnato dal "Capitale" di Marx nelle farneticazioni del personaggio in cui statalisti di mezzo mondo riconoscono il Salvatore della modernità affranta da una crisi altrimenti irresolubile. Ad ulteriore ed inequivocabile riprova della dose di fascismo insita nei vaneggiamenti del fautore dell'intervento statale nel mercato vi sono le conseguenze sociali e strutturali apportate dal nuovo ordine mondiale inaugurato dal new deal rooseveltiano in quel lungo periodo che, con fare nichilista, non sembrava sfiorare le preoccupazioni di Keynes.

Sin da subito un mondo conquistato dagli scritti del pensatore britannico si dimostrò propizio a quello che potremmo chiamare revisionismo giuridico, nonché un allontanamento dal concetto di diritto in ambito giusnaturalista. L’assistenzialismo fu propedeutico alla rilettura stessa della natura umana, giungendo infine ad ampliare la gamma di quelli che normalmente venivano considerati i diritti inalienabili dell’Uomo: si cominciò con l’istruzione pubblica, poi la sanità per tutti, le ferie pagate, il sistema pensionistico, la tredicesima, la quattordicesima, il divieto di licenziamento e si finì così per istituire dei privilegi che, essendo differenti per ciascuna casta, stratificarono la società in effettive corporazioni e camere del lavoro.

La vera alienazione nella società contemporanea
(presumendo l’esistenza di tale concetto) è data dalla perdita di individualismo del cittadino, smarrito in un sistema che lo vuole "matrice nei computer dello stato" (cit. Margaret Thatcher) e pedina sulle sterminate scacchiere di sindacati e associazioni collettiviste aprioristicamente contro un fenomeno e mai a difesa di un valore. E’ l’era dell’illusorio quanto utopico ideale egalitarista democratico ridotto ai minimi termini del solo consenso, direttamente proporzionale alla quantità di assistenza erogata dai governi alla massa informe di elettori.

Il liberalismo viene spesso condannato per il suo ambire ad eliminare la lotta di classe e la conseguente ripartizione del tessuto sociale, considerato ideale nobile ma utopico poiché la differente distribuzione di ricchezza nel capitalismo riprodurrebbe i medesimi effetti indesiderati. Ma se la massima libertà individuale comporterebbe almeno un’uguaglianza giuridica effettiva dinanzi la legge, come si può giudicare positivamente un sistema che per sua natura produce corruttela, clientelismo e, nel migliore e più morale dei casi, un’innegabile scala gerarchica dalla quale non si intravede via di fuga poiché imposta dalla coercizione statale? Se fossimo rimasti fedeli alle radici libertarie della tradizione occidentale anziché fare appello al becero populismo e al paternalismo più abietti saremmo ancora la civiltà più fiorente e libera che abbia popolato la Terra. Vogliamo ancora crede che l’antico sentimento di Libertà si possa ridestare.

 

Daniele Venanzi