/ CONFRONTO LIBERALE, ARTICOLI

LO STATALISMO, CAUSA DELLA CORRUZIONE





 

 

 

 

 

 

 

Tra Grillo, Travaglio, Floris e Santoro (e chi più ne ha più ne metta), tra pm più o meno politicizzati (il solo fatto che ve ne sia uno nella “casta della magistratura” significherebbe che il sistema è malato da mele marce, tanto è delicata la materia della privazione della libertà anche ad uno solo dei cittadini), nella rincorsa tra reportage, servizi giornalistici e televisivi, scoop scandalistici, edizioni speciali, libri freschi di stampa e lanci di agenzia, il cittadino comune ha buoni motivi per non capirci un bel niente tra grida di odio e manifestazioni contro un “regime” che se fosse vero che c’è non permetterebbe nemmeno la minima parte di questo eccesso di libertà di insulto.

Che sarebbe l’Italia senza Berlusconi? Forse farebbero bene a chiederselo proprio coloro che hanno avuto successo grazie al loro “anti-berlusconismo”, rivelandosi, in realtà, più berlusconisti dei berlusconiani. Esisterebbe Travaglio senza Berlusconi? Certo che no. Anno Zero avrebbe motivo di andare in onda? Nemmeno per idea. Ecco allora che vale la pena provare (una volta tanto) ad analizzare i problemi del Paese togliendo di mezzo la lente distorta di chi vuol far passare tutti i mali da Arcore o Palazzo Grazioli. La corruzione, ad esempio, non l’ha inventata Berlusconi, è invece un problema che merita di essere affrontato al pari di ogni altro che ad essa è strettamente legato, ad ogni latitudine ed in ogni epoca storica, ovvero l’eccesso di burocrazia e l’abitudine al clientelismo. È quindi necessario riportare il problema al di fuori del “teatrino della politica”, che vive oggi (purtroppo) anche grazie alle redazioni di tanti giornali, alle stanza di troppe case editrici, agli studi di molte emittenti televisive.

Il problema della corruzione della politica è un problema legato prevalentemente, quindi, all’eccesso di statalismo. Se lo Stato si limitasse a scrivere poche e chiare regole e lasciasse tutto il resto alla legge del mercato, un imprenditore non avrebbe alcun motivo di rivolgersi ad un pubblico amministratore, né viceversa, per chiedere un finanziamento o ricevere un favore per un appalto.

In Italia poi c’è la cattiva abitudine di voler far soldi con la politica e non, come rimproverano da sinistra, di voler far politica grazie ai soldi. Il “regime” viene instaurato ogni qual volta è lo Stato e non l’impresa a voler fare affari, quando è più ricco chi mette la firma in nome dello Stato (un funzionario, un dirigente, un amministratore in genere organico alla pubblica amministrazione) che non l’imprenditore che costruisce e lavora. Non sarebbe un problema se non fosse tutto questo divenuto il modo di fare politica, forse l’unico o quasi totalizzante. Quando non si muove foglia che lo Stato non voglia: e quando lo Stato è composto da soggetti poco illuminati e figli dei quadri dei partiti, privi di quella indispensabile cultura liberale, ecco che ci si avvicina pericolosamente sull’orlo del precipizio. Quello che qualcuno definiva “statalismo” è rappresentato ancor meglio dal termine più netto di “dittatura statalista”.

A queste considerazioni di carattere generale e “culturale”, va aggiunto che in Italia vi è un eccesso di “terzo settore” (associazioni di promozione sociale, cooperative sociali, onlus, ecc…) che con l’etichetta, spesso solo di facciata, del “sociale” trovano la giustificazione di fare lavori e prestare servizi in luogo e per conto dell’impresa che, su scala complessiva, rappresentano veri e propri affari. Non solo, la loro natura “sociale” gli attribuisce l’ulteriore agevolazione di non dover rispettare le regole dell’impresa e consentendo al pubblico di aggirare vincoli di trasparenza, stabilendo così con esse un rapporto stretto che cementifica ancora di più quel soffocante rapporto clientelare di cui lo Stato e i suoi amministratori amano circondarsi per fare gli affari più in nome proprio che per il bene dell’intera collettività. Va messo mano, attraverso un accurato e scientifico sistema di controlli e, nel caso, di limiti e divieti, a questo trucco del “terzo settore”: materia scomoda, si sa bene, ma dal quale dovrà essere sottratto chi, in nome del servizio verso gli altri, fa onestamente ciò che è bene fare, evitando di fare di tutt’un’erba un fascio, ma anzi eliminando chirurgicamente chi fa del male col nome del “bene”.

 

 

Ecco perché  le prime riforme da fare sono quelle strutturali che investano però, prima di tutto, il “sistema di relazioni tra Stato e privati”. Serve una radicale inversione di marcia, prima di tutto culturale (che non ci si può imporre, perché o si ha una certa formazione, o non la si può imparare dall’oggi al domani): è indispensabile che lo Stato si ritiri dalla vita pubblica, che gestisca solo ciò che è indispensabile, vigilando da debita distanza sul rispetto di certe elementari norme-quadro (anche a tutela dei più bisognosi e svantaggiati). Nessuno avrà così interesse a lucrare in nome e per conto dello Stato: al cittadino sarebbe così reso il miglior servizio al minor costo, col miglior beneficio anche per lo Stato. Non è, a ben vedere, l’utopia frutto della teoria del primo liberista di passaggio: solo in questo modo, sottraendo dalle fondamenta del sistema le radici della corruzione e dello spreco che sarà possibile contribuire a risanare un intero Paese ad oggi palesemente malato e sull’orlo del collasso.

Andrea A. Bonacchi