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Gli scenari di end-of-regime passano dall'economia

Dai campi di calcio ai blog, tutti a mostrare fasce di stoffa rossa, gesto di sacrosanta solidarietà verso verso la popolazione del Myanmar, verso i bonzi buddisti e verso "Generazione 88", la rete clandestina che di fatto ha riempito le piazze di questa nuova "primavera birmana". Scherzi della storia: il rosso è lo stesso colore della giunta al potere da oltre 40 anni, che monaci e popolo stanno così tenacemente combattendo. Un regime repressivo e isolazionista, con una caratteristica chiara: quello birmano è un regime socialista; come Cuba, come la Cina e come la North Korea.
Dovevano lasciarci la pelle un gruppo di monaci e qualche reporter straniero perchè le tv occidentali si occupassero di questa dittatura vecchia di 40 anni. Eppure durante la recente tragedia dello Tsunami nessuno si accorse che dal Myanmar non arrivarono fotografie e che la giunta militare dichiaro appena qualche vittima di quell'evento naturale catastrofico che devasto le coste del paese.

Tutti stupiti dei minacciati veti di Cina e Russia ad un intervento della comunità internazionale nell'ex Birmania, niente di nuovo: già nel Gennaio 2007 Cina e Russia avevano messo un doppio veto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite su di una risoluzione proposta dagli Stati Uniti per mobilitarsi contro le violazioni dei diritti umani in Myanmar. Alle origini del gran rifiuto, 50 milioni di barili stimati che il Burma possederebbe e i maggiori depositi di gas del sud-est asiatico: 510 miliardi di metri cubi che agli affamati colossi asiatici in continua espansione farebbero molto comodo. La China national petroleum continua ad ottenere concessioni e, insieme all'India, stanno riesumando, per favorire gli scambi, la vecchia "Stilwell road", un'arteria da 1736 km costruita dagli alleati durante la guerra per rifornire gli eserciti contro il Giappone.
Tuttavia come ha intelligentemente osservato nel proprio blog di Tocqueville.it Oggettivista, all'origine del possibile veto di Russia e Cina sussistono queste ed altre ragioni commerciali ben evidenti ma altrettante ragioni ideologiche: il Myanmar è una dittatura rossa (come Cina e come è stata, e per certi versi è tutt'ora, la Russia di Putin). Entrambi i paesi usano metodi repressivi al proprio interno, entrambi attuano una politica particolarmente sensibile contro le disintegrazioni territoriali. Un disgregamento del Myanmar (inevitabile se il regime dovesse implodere) creerebbe un fastidioso precedente nella regione, specie a pochi mesi dalla vetrina internazionale che rappresenterà Pechino 2008. In cui la Cina dovrà sfoggiare il volto pulito del regime.

Gli Stati Uniti sono stati il primo paese a lanciare chiaramente un ultimatum alla giunta militare birmana. L'unione europea si è allineata alla condanna, grazie alla politica estera di Brown, e alla nuova linea di politica estera più marcatamente atlantica di Merkel e Sarkozy.
Il monito di G.W. Bush è chiaro: "Il governo del Myanmar non ostacoli le aspirazioni del suo popolo alla libertà", annunciando sanzioni contro la giunta militare e ritenendola responsabile delle repressioni di questi giorni.
L'Asean (Association of South-East Asian Nations), solitamente riluttante nel prendere posizioni rigide contro la politca interna dei suoi paesi membri, ha invece espresso stavolta una netta condanna verso la repressione interna in Myanmar.

Quali vie di uscita dalla crisi? Per ipotizzare uno scenario plausibile di "end-of-regime" potremmo guardare alla storia degli altri paesi vicini che hanno attraversato una situazione analoga. Ci riferiamo specialmente all'Indonesia, anch'esso stato membro dell'Asean.
La dittatura socialista birmana non ha mai negato la propria ammirazione per la pseudo-democrazia di destra costruita negli anni dal Presidente Suharto, così, comprendere come il regime di quest'ultimo vide la propria fine, puo essere utile per ipotizzare la caduta della giunta SPDC in Burma.
I paralleli tra i due paesi sono stringenti: entrambe vaste nazioni dell'area tropicale, entrambe composte al proprio interno da diversi gruppi etnici affermatesi in seguito al Secondo Conflitto Mondiale, entrambe, nel caos post-bellico, si "affidarono" alle proprie forze armate, che sembravano l'unico potere realmente in grado di tenere assieme territori così etnicamente frammentati.

Sia il Gen. Suharto che Gen Ne Win, (l'uomo forte dell'ex Burma fino ai primi anni '90) provenivano da un background molto simile: entrambi superstiziosi, furono profondamente scossi dall'esperienza maturata nella milizia paramilitare giapponese durante l'occupazione dei loro rispettivi paesi. Entrambi perseguivano valori marziali e consideravano il ruolo dell'esercito centrale nella politica.
La differenza si ebbe ben presto nella politica economica: Suharto, come altri dittatori di destra nel mondo (vedi Pinochet in Cile e la svolta liberista con i Chicago Boys) al fine di legittimare il proprio governo diede avvio negli anni a politiche economiche di stampo liberista piuttosto spinte che fecero dell'Indonesia una delle celebri "tiger economy" dell'Asia. Era tempo di Guerra Fredda e le potenze occidentali chiusero più di un occhio sulle violazioni dei diritti umani di Suharto in cambio di un alleato fedele in funzione anticomunista.

Negli stessi anni, Ne Wid fece invece intraprendere al Myanmar quella che lui stesso definì la "via birmana" al socialismo. Tradotto in fatti: una forma bizzarra di isolazionismo, senza investimenti internazionali, con un'economia pianificata, con un controllo ferreo da parte dello stato e un regime liberticida e violento al proprio interno. Come prevedibile, nel paese dilago una crisi economica senza precedenti, destinata a durare per decenni. I destini di Indonesia e Birmania si divisero per sempre.
Negli anni in Myanmar la miseria derivata dalla scellerata politica della giunta militare comunista provoco la celebre rivolta del 1988, soffocata brutalmente dall'esercito. Due anni dopo si tennero, per la prima volta in 30 anni, libere elezioni. Il NLD (Lega Nazionale per la Democrazia), il partito di Aung San Suu Kyi, la figlia di Aung San ("il padre della patria" birmano), porto all'Assemblea Costituente 392 membri, su un totale di 485, ma lo SLORC (Consiglio di restaurazione della legge e dell'ordine di stato), spalleggiato dall'Esercito, si rifiuto di cedere il potere, rovesciando l'assemblea popolare, ed arrestando Aung San Suu Kyi, ed altri leader dell'NLD.

La giunta militare, al fine di calmare la popolazione promise aperture economiche liberali e investimenti stranieri. Ma era il 1990 e non più il 1960. La Guerra Fredda era appena terminata e le potenze occidentali non avrebbero più chiuso nessun occhio sulle violazioni dei diritti umani in cambio di un alleato di cui non si sentiva più la necessità.
E' in questo clima che maturo il premio Nobel per la pace a Aung San Suu Kyi e le prime sanzioni economiche degli Usa.
Ma cosa stava accadendo contemporaneamente in Indonesia? Il regime di Suharto stava implodendo sulla spinta delle riforme da lui stesso intraprese negli anni: la gente inizio a stancarsi di vivere in uno stato autoritario e il generale per reazione diede un ulteriore giro di vite a giornali e opposizioni.
Egli aveva creato uno pseudo-partito per vincere pseudo-elezioni e governare uno pseudo-parlamento, tutte tattiche copiate anche dalla giunta birmana. Ma ormai era troppo tardi: il rapido sviluppo della tigre asiatica, spinto dallo stesso Suharto negli anni, si rivelo un vero e proprio boomerang contro il proprio stesso regime: favoriti dal clima di libertà economica dell'Indonesia, le nuove generazioni avevano potuto mandare i propri figli a studiare in America, in Europa e in Australia. Al loro ritorno in Patria questa nuova "elite" non aveva nessuna intenzione di vivere in uno stato di regime che avrebbe potuto compromettere i propri affari con le democrazie occidentali: fu l'inizio della fine per Suharto e la dittatura indonesiana.

In Birmania tuttavia non esiste una middle class che ha qualcosa da perdere dall'isolamento in cui è costretto il paese, in questa situazione anche le sanzioni internazionali perdono la loro efficacia e l'unica strada sarebbe un intervento diretto delle Nazioni Unite sul territorio o un appoggio concreto all'opposizione birmana fatto di armi e dollari. In entrambi i casi pesa il niet di Cina e Russia ed eventuali azioni di questo tipo finirebbero per essere pressochè unilaterali con una probabilità di riuscita dubbia, considerando anche l'impegno totalizzante degli Usa nella lotta al terrorismo internazionale in vari paesi del globo.

La via Indonesiana alla libertà resta quindi la soluzione più praticabile: i moti di piazza possono servire se non ad un "regime change" almeno ad una modifica sostanziale degli atteggiamenti della giunta principalmente a livello economico. Un'apertura verso riforme di stampo liberista potrebbe essere un primo passo per inserire il germe della libertà tra le crepe dell'isolazionismo birmano. Con qualche decennio di ritardo la strada seguita dalla dittatura di Suharto puo essere intrapresa anche in Myanmar. Se il caposaldo del regime è l'economia socialista e l'esercito è il suo garante, insidiare il sistema economico alla base del disastro birmano è davvero l'unica via reale per una trasformazione futura del paese in senso liberale. E' questo il punto in cui dovrebbe insistere l'inviato Onu Ibrahim Gambari nel suo colloquio con il vecchio, malato (e sconosciuto anche al suo popolo) Generale Than Shwe, che non ha nessuno intenzione di mollare la presa. Le crepe nel suo esercito, la cui forza, come spesso accade nelle dittature, è inversamente proporzionale alla miseria del paese, sembrano più auspici dei media occidentali che reali accadimenti. Il 27 marzo 2006, ha spostato la capitale nazionale da Yangon verso un luogo vicino a Pyinmana, ufficialmente chiamato Naypyidaw, che significa "la sede dei re". Un luogo sperduto e inaccessibile ai più, come la mente di questo regime.

D.M.

Fonti:
- bbc.co.uk
- globalsecurity.org
- Fox News
- Panorama
- ragionpolitica.it
- Herald Tribune