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Cieli Nuovi e Terre Nuove: Giotto a Roma

Cos'è la Storia, se non il tentativo di imporre un'interpretazione al caotico divenire dell'agire umano? Imporre un ordine fittizio che rispecchia le aspettative della nostra anima al caos fluttante del mondo, per aver l'illusione che tutto possa avere un senso. Quant'è vero questo nell'Arte. Ci costruiamo ipotesi, schemi interpretativi e su questi poggiamo il vestito del Reale, accorciandolo ed allungandolo come fossimo pessimi sarti. Giotto ne è l'esempio più lampante. Vittime di una concezione lineare ed evolutiva della Storia che vogliamo più simile ad un binario che ad un cespuglio, rinchiudiamo la sua arte in una gabbia d'acciaio. Vogliamo che sia un precursore del Rinascimento. Chiudiamo gli occhi con quanto delle sua arte si pone in rapporto con il Classicismo Medioevale e quanto con il mondo gotico. Ma la Vita è ben più ricca e complessa della teoria: questo vale soprattutto per il fiorentino, artista sempre attento a quanto di nuovo gli offriva il suo tempo e da buon imprenditore, pronto ad assecondare le richieste ed i gusti della committenza.

Un'epitome di tale discorso è nel rapporto tra Giotto e la committenza romana, legata alla corte papale. Il primo contatto risale al termine dell'esperienza di Assisi. Come ipotizzato in precedente articolo, il fiorentino era nella squadra, guidata e coordinata dal Cavallini, dedicata all'esecuzione del ciclo francescano. Ciclo in cui si era distinto, nell'affrescare l'accertamento delle stimmate e il pianto delle clarisse.
O per ambizione, o per la stima del maestro romano, Giotto decise di a risciacquar i panni in Tevere, ossia nella fucina in cui nasceva un'arte italiana autonoma, lontana dall'esperienza bizantina.

Il fiorentino così ebbe l'occasione di ammirare tutti i grandi cicli pittorici e musivi che ornavano le basiliche romane, realizzati nel decennio precedente. Confrontarsi con l'equilibrio tra realismo e classicismo inseguito da Arnolfo di Cambio nella sua scultura. E riflettere sugli stilemi gotici e sull'uso innovativo del colore della scuola di Oderisi da Gubbio. Per poi ottenere le prime committenze.

Forse il primo lavoro fu il completamente della decorazione del transetto di Niccolo IV che ingrandì il coro arretrando l'abside. Decorazione consistente una serie di clipei affrescati con un Agnus dei e busti di santi e profeti, iniziata dal Rosuti.
Tra questi vi è un santo barbuto bruno che potrebbe essere un San Giacomo o un San Paolo, un possibile San Pietro, un Profeta canuto di pregevole qualità plastica e un Eterno benedicente che alcuni critici attribuiscono a Giotto.
Cio diede il là a quella che probabilmente è la sua prima opera da maestro e capo bottega: la decorazione della loggia che Bonifacio VIII nel 1297 fece erigere in San Giovanni, costituita daI tre affreschi, la Presa di possesso del Laterano, che erroneamente viene ancora indicata come l'apertura del Giubileo, il Battesimo di Costantino e la Fondazione della Basilica. Un ciclo dalla forte valenza propagandistica ed ideologica: da una parte si afferma la legittimità dell'elezione di papa Caetani, fortemente discussa, dall'altra il suo desiderio di rifondare l'Ecclesia, affermando il dominio del potere spirituale su quello temporale.
Dell'opera, data la distruzione nel 1586 della loggia, rimane soltanto un frammento della 'Presa di Possesso', l'unico affresco che possiamo ricostruire con certezza, grazie ad una copia ad acquarello conservata a Milano, nell'Ambrosiana.

Figura 1: Presa di possesso del Laterano

Tuttavia, senza questo ciclo, è impossibile comprendere quanto accadrà agli Scrovegni. L'attenzione per il paesaggio, tipica della Scuola Romana, non è quinta decorativa, ma teatro in cui l'Uomo vive, lotta, soffre. Giotto riproduce fedelmente la loggia, prolungando nel virtuale lo spazio reale, riproducendo colonne e trabeazione.
Da Arnolfo, il primato degli individui: nell'affresco non vediamo tipi universali, simboli di vizi e virtù, ma uomini. I loro visi posti a tre quarti, con l'ombra accentua i loro tratti. A differenza del passato, è l'effimero che si trasforma in eterno.
Dai miniaturisti, il colore limpido e prezioso. Tutto risolto in una nuova sintesi plastica, severa e maestosa, che stabilisce continuità tra fondo ed immagine, quasi comprimendo come in bassorilievo, lo spazio tridimensionale. Il linguaggio aulico di una chiesa trionfante.

Sempre in questo periodo, risale la commissione di un intervento in San Pietro: cinque storie della vita di Cristo affrescate nell'abside, già perdute nel Rinascimento, di cui non si puo arguire nulla.
Durante il secondo soggiorno romano, nel 1311, Giotto si trova davanti ad una realtà totalmente diversa. Non più la chiesa ambiziosa e magniloquente di Bonifacio VIII, ma quella dispersa ed umiliata di Avignone. Una chiesa che non si propone più erede dell'Impero, ma per giustificare la sua esistenza ha bisogno di ritrovare le sue radici paleocristiane, la successione apostolica da Pietro. E il fiorentino diviene il cantore di questo momento di ripiegamento.
Ed ecco quindi l'esecuzione del 'mosaico della Navicella', forse l'opera più misteriosa di Giotto, commissionata dal Cardinal Stefaneschi e destinata a decorare la facciata di San Pietro. L'episodio del Vangelo di Matteo è quello in cui Pietro viene soccorso da Gesù mentre cammina sulle acque: la protezione di Dio sulla Chiesa e sul Papato, fragile barca travolta dalle tempeste della Storia.

Figura 2: La Navicella

Cio che abbiamo oggi, a causa degli infiniti rimaneggiamenti, non è che una pallida ombra dell'originale. E le ricostruzioni, basate sul disegno di Parri Spinelli, potrebbero non essere attendibile. L'ampio paesaggio marino, con la barca in primo piano e Cristo che sorregge San Pietro, è fin troppo rinascimentale, in cui non si potrebbe collocare uno dei pochi frammenti autografi, l'angelo di Boville Ernica.
Addirittura, nelle varie copie e riproduzioni, il gruppo degli apostoli nella barca varia di continuo nelle pose e l'architettura di sinistra è sempre diversa. Forse la Navicella originale probabilmente somigliava molto allo Sbarco di Marsiglia, nella cappella della Maddalena ad Assisi. L'unico frammento certo è l'angelo, che ci dice molte cose.

Figura 3: Angelo di Boville Ernica

La sua struttura è solida e naturale, il colore ricco è raffinato. Eppure si percepisce un qualcosa di arcaico, in richiamo alle radici. Stesso arcaismo formale delle Storie dell'Antico e del Nuovo Testamento che decoravano le pareti di San Pietro. Di loro rimangono alcuni disegni acquarellati conservati nella Biblioteca vaticana, opera di Giacomo Grimaldi, eseguiti prima d'esser distrutti nel 1605.
Giotto in questi affreschi si pone il problema del contesto. Di come non far stridere la sua opera con quanto la circonda, cercando non la rottura, ma la continuità. Non la contrapposizione, ma la stratificazione.
E ci riuscì talmente bene che a lungo i critici scambiarono gli acquerelli di Grimaldi per copie di affreschi paleocristiani. Ed infine, il polittico Stefaneschi, commissionato dal cardinale per decorare l'altare maggiore di San Pietro: un dipinto bifronte che rappresenta al centro del lato anteriore San Pietro in trono; negli scomparti laterali figure di santi. Più complesso è il lato posteriore con al centro Cristo in trono e, negli scomparti laterali, il Martirio di San Pietro e il Martirio di San Paolo. Una Vergine in trono è raffigurata al centro del lato posteriore della predella. Gli altri scomparti, che di essa si sono conservati, mostrano figure di santi.

Figura 4: Lato Anteriore

Figura 5: Lato Posteriore

Il tema principale del polittico è la glorificazione del papato e di Pietro, le radici dell'ecclesia. Il principe degli apostoli è raffigurato con il canonico attributo delle chiavi in mano, ma veste il mantello rosso che all'epoca il papa indossava subito dopo la sua elezione apparendo così il primo papa e il legittimo successore di Cristo.
Ai suoi piedi, a sinistra, il cardinale Stefaneschi è vestito con un'elegante e ricca dalmatica bianca, tipica dei giorni di festa. Essendo titolare della chiesa di San Giorgio al Velabro, è presentato da San Giorgio ai cui piedi si intravede il drago, e porge il modellino del polittico. Un invenzione degna di Manritte, che crea un infinito gioco di specchi e di richiami. Di fronte a lui è forse inginocchiato Celestino V, di cui lo Stefaneschi fu il primo biografo nell'Opus metricum. Il papa è presentato da un personaggio di difficile identificazione. Pero il senso è chiaro: il rifiuto della chiesa di papa Caetani.
Una salda prospettiva inquadra trono e pavimento cosmateschi. La maestosità di tali figure, indica che esso è stato progettato per essere visto da lontano. Il lato esposto al popolo.
Una diversa concezione è alla base del lato posteriore, più ricco di particolari e dunque realizzato per essere visto da vicino, dai chierici che celebravano messa.

In un'edicola di forme gotiche, ricordo di Arnolfo di Cambio, è inserito Cristo benedicente sul trono, vestito di blu. Schiere di angeli dai colori tenui lo circondano, formando intorno una sorta di nicchia. A differenza che sull'altro lato dove le vesti calavano con precisione i personaggi nel loro tempo, questo non è il lato del Divenire, ma dell'Eterno. Il cardinale non è più il potente, il principe della Chiesa, ma un umile peccatore che non osa toccare con la destra il piede del Salvatore.
La Crocifissione di San Pietro è incorniciata dai due edifici bianchi, la Piramide Cestia e la meta Romuli, (piramide analoga a quella Cestia posta nell'area dove sorge la Chiesa di S.Maria in Transpontina, lungo via Consolazione all'incirca, in Via Borgo, che fu distrutta nel 1499 per ordine di papa Alessandro III Borgia per ampliare la viabilità della strada vicina a S.Pietro, in previsione dell'affluenza massiccia dei pellegrini in occasione dell'Anno Santo del 1500) che identificano le diverse tradizioni sul luogo del martirio, Aventino o Circo Vaticano.
Lo spazio è rigorosamente costruito: un suolo piatto, marrone, parallelo al quale si estendono i due bracci orizzontali della croce. Pietro si scaglia sul fondo dorato. Le figure degli astanti stanno leggermente in semicerchio, raccordandosi così armoniosamente alla costruzione spaziale.

Per accentuarne l'importanza, le dimensioni di San Pietro sono maggiori rispetto alle altre figure. La folla è scalata in profondità nonostante le scarse indicazioni spaziali e il fondo dorato. Due angeli, simmetricamente disposti, concludono lo spazio terreno al di sopra del quale San Pietro, in una mandorla, viene trasportato in cielo, citando il racconto della 'Legenda Aurea'.
Le vesti delle due donne a sinistra, quella in verde con i capelli sciolti per il dolore e quella in rosa con le mani coperte dal manto, sono caratterizzate nel vestiario ricco con lunghi pennacchi al cappuccio. Il messaggio della chiesa è universale, non distingue il povero dal ricco, ma parla singolarmente ad ogni uomo.
Agli occhi dell'osservatore trecentesco, questo inseriva la scena nell'epoca a lui contemporanea. Non un anacronismo, ma un'attualizzazione, capace di rendere l'osservatore coprotagonista del dramma, nel dire che il martirio non è di insegnamento solo per i primi cristiani, ma per tutte le generazioni. Un approccio analogo a quello di Caravaggio nella conversione di Matteo.

Concludono i due gruppi degli astanti due carnefici, quello di sinistra ancora con un martello in mano e lo sguardo lievemente interrogativo. Non più uomini, ma strumenti della Provvidenza che dal Male trae il Bene.
La grande varietà di pose e atteggiamenti degli astanti attenua la simmetria, fino ad eluderne la percezione. Tutti gli sguardi, tranne quelli dei due soldati in alto a destra, impegnati tra loro in una conversazione, l'umanità dal cuore arido, incapace di accogliere il messaggio, sono rivolti a Pietro. Le vesti e le armature sono riccamente descritte e vivacissime nei colori. I rossi e i verdi, con i loro contrasti e le loro compensazioni, quasi anticipano le soluzioni cromatiche tanto amate dal Gotico Internazionale.
Lo stesso equilibrio tra simmetria e varietà si ritrova nella Decollazione di San Paolo. La folla è disposta in due gruppi asimmetrici, il cui andamento è sottolineato dalla linea delle rocce retrostanti. Al centro è il gruppo del carnefice nell'atto di riporre la spada nel fodero, e del santo con la testa tagliata, circondato da donne piangenti.

Due angeli celesti in atteggiamento dolente assistono al martirio, a sinistra, sulle rocce popolate di alberelli verdi scuri. Plautilla, altra citazione della Leggenda Aurea, riceve il drappo insanguinato del martirio e dialoga con San Paolo che, dalla mandorla della sua assunzione, si sporge verso di lei. Il piccolo edificio a pianta circolare, forse il Martyrion contenente le reliquie dell'Apostolo delle Genti è reso con grande attenzione prospettica, diversa da quella rinascimentale, dato che non predomina la costruzione geometrica, ma il dato ottico. Non il mondo iperuranio, razionale ed eterno, ma quello in cui viviamo ogni giorno, fallibile e soggetto al dono del divenire.
La salvatio animae, nei due tondi con i martiri alati che salgono al cielo, è la ricompensa e il culmine della scena del martirio. Giotto ha sfruttato a pieno la possibilità offerta dall'arco ogivale, dando a questo motivo un risalto nuovo per l'epoca.
In dipinto in cui alla solennità ieratica, quasi arcaica, si contrappone movimento e vivacità. Al fondo oro che non impoverisce, ma anzi accentua la profondità, creando un effetto di grande compressione spaziale, si affianca la ricchezza cromatica. Alle figure statuarie, l'utilizzo di fonti luminose variabili.
Perfetta sintesi di antico e moderno, di tradizione e futuro, da cui far nascere un mondo nuovo. Immagine della grandezza di Giotto, capace di esplorare sentieri differenti, facendoli convivere in superiore armonia.

Alessio Brugnoli