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Sognando la Libertà. L'eredità morale di Von Hayek

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Parlando di liberalismo mi sembra opportuno ricordare Friedrich A. von Hayek. Di origini austriache, nato al limite del XIX secolo e vissuto fino al 1992, è stato insignito del premio Nobel per l’economia nel 1974. E certamente non è il Nobel il motivo per cui siamo ne scrivo, sebbene forse in quegli anni rappresentasse ancora una misura del reale valore di uno studioso.  Dopo aver criticato il socialismo nel ’44 (Verso la schiavitù), von Hayek esce con un  classico del pensiero liberale del Novecento, "Constitution of Liberty", durante un incarico come docente che lo trattiene 13 anni a Chicago. A questo fa seguito "Law, Legislation and Liberty", opera in tre volumi pubblicata tra il ’73 e il ‘79.

Il tratto distintivo di Hayek è la forte fiducia nelle capacità dell’individuo, opposta alla sorda deresponsabilizzazione di un sistema collettivista-comunista, che allora andava realmente smontato, e di un interventismo di Stato, oggi come non mai da contenere se non da eliminare. L’individuo, per Hayek, e per i liberisti del suo stampo, è totalmente in grado di essere responsabile delle proprie azioni e di sè stesso. Ritengo con Hayek che, una buona parte del clima attuale, si possa risolvere e interpretare con questa chiave di lettura, con la maggiore o minore fiducia nell’uomo, nella sua creatività (intesa in senso ampio), nelle sue capacità e, non ultima, nella rete delle sue relazioni sociali.

Questo, sia chiaro e  fondamentale, non elude dal fallimento umano, sempre dietro l’angolo. Tuttavia delegare ogni decisione allo Stato, non mette certo al sicuro dal fallimento di quest’ultimo, come è sotto gli occhi di tutti. Non è un ideale utopistico... anzi, direi che  antropologicamente è il più reale. Ecco alcune righe dalla prima pubblicazione dello studioso austriaco:“Il controllo economico non è il semplice controllo di un settore della vita umana che possa essere separato dal resto; è il controllo dei mezzi per tutti i nostri fini. E chiunque abbia il controllo dei mezzi deve anche determinare quali fini debbano essere alimentati, quali valori vadano stimati […] in breve, ciò che gli uomini debbano credere e ciò per cui debbano affannarsi” (Verso la schiavitù).

 

In un sistema liberale si creerebbe, per lo meno, il clima migliore per cui personalmente e liberamente un cittadino possa interrogarsi circa quello che vuole costruire e come usare i propri strumenti economici. Non vi sembra, d’altronde, che ci sia da almeno un decennio (forse due...) un altissimo grado di non-progettualità? Questa mancanza ultimamente viene imputata alle fasce giovani, viene vista come causa di tanto spreco di energie (penso al diffondersi dell’uso delle droghe, ma non vorrei allargare troppo il tema della riflessione), e di fatto lo è. Ma non potrebbe anche questa non-progettualità essere vista con la chiave di lettura economico-politica che von Hayek ci offre? Secondo Hayek, sì: “Il più importante cambiamento prodotto da un controllo estensivo dello Stato è di ordine psicologico: un’alterazione del carattere della gente”. Semplificando molto, e lasciando a ciascuno lo spazio di indagare quanto sia “libero di”, Hayek esorta a perseguire una qualità della vita non voluta solo esternamente, ma anche nel profondo di ogni singolo individuo.

La radicata umanità di von Hayek vivifica il suo liberalismo tanto da renderlo uno dei maggiori teorici liberali del Novecento. Ecco un passaggio che oltre a chiarire maggiormente il suo calibro, dovrebbe essere ricordato spesso nei dibattiti e nelle ricerche liberali, o libertarie: "Se esistessero uomini onniscienti, se potessimo sapere non solo tutto quanto tocca la soddisfazione dei nostri desideri di adesso, ma pure i bisogni e le aspirazioni future, resterebbe ben poco da dire a favore della libertà (. ..). La libertà è essenziale per far posto all'imprevedibile e all'impredicibile; ne abbiamo bisogno perché, come abbiamo imparato, da essa nascono le occasioni per raggiungere molti dei nostri obiettivi”. (da "la Società Libera", Vallecchi).

Il Nobel austriaco era senz’altro in linea
con il pensiero di A. de Tocqueville. Lo era, fra i molti aspetti, nel modo chiaro e realista con cui manteneva unite le componenti-politico economiche a quelle antropologiche. Infatti, per quanto a volte se ne sia scritto come teorico del mercato senza freni né regole, è von Hayek che sostiene che “ la libertà senza principi morali non ha mai funzionato”.
Von Hayek non era neanche distante dalle posizione della scuola di Friburgo, fondata da Eucken, che già intorno agli anni ’40, manteneva aperta la strada tedesca del liberalismo. Dal nome della rivista "Ordo" la scuola fu nominata "Ordoliberalismo", ultimamente citato anche da Tremonti. A loro si deve l’economia sociale di mercato, e molti studi ripresi successivamente sul legame tra economia e diritto. Per loro il ruolo dello Stato era di garantire il funzionamento del mercato, contrastando monopoli e cacciatori di rendite, pur restando fermi avversari del dirigismo.

A tal proposito leggiamo quanto scrive
Flavio Felice: “La concezione di Erhard (ministro dell’economia e Cancelliere della Repubblica Federale Tedesca) di un’economia sociale di mercato si strutturava in tre punti: 1. impedire al potere politico di essere sorgente arbitraria del potere; 2. sopprimere ogni struttura monopolistica; 3. fare prevalere in ogni caso la libertà e la concorrenza”. Prosegue citando Padoa Schioppa e sottolineando quanto già la nostra Costituzione (sempre lei!) contenga un giudizio negativo del mercato – considerato intrinsecamente “antisociale” - e uno positivo sull’interventismo pubblico – raputato intrinsecamente benefico. In Italia forse solo Luigi Sturzo aveva colto la lezione della scuola di Friburgo, parlando di “personalismo economico”.

Critico anche verso l’avanzare sfrenato
della democrazia, Friedrich propone quanto segue: “Questo (demarchia n.d.r.) sarebbe il nuovo nome di cui ha bisogno, se si vuole preservare l’ideale alla sua radice, in un’epoca in cui, dato il crescente abuso del termine democrazia per designare sistemi che tendono alla creazione di nuovi privilegi attraverso coalizioni o interessi organizzati, un numero sempre crescente di persone si allontana dal sistema prevalente […]. Se tale reazione giustificata contro l’abuso del termine non si vuole che porti a discreditare l’ideale stesso, e a far accettare alla gente disillusa forme di governo molto meno desiderabili, sembra necessario avere un nuovo termine come ‘demarchia’ che descriva l’antico ideale con un nome non macchiato da un lungo abuso” ("Law, Legislation and Liberty"). Un'eco di libertà, quella del nostro economista austriaco, che ci arriva nella forma di una lezione attualissima che, nei nostri tempi di crisi, finisce per avere molto a che fare con l'esistenza di ognuno di noi. E con l'idea che il liberalismo economico sia inscindibile dal liberalismo politico e che - per loro natura - entrambi rappresentano la stessa faccia del sistema maggiormente vicino ai valori più profondamente umani. 

Saba Giulia Zecchi

Fonti: ragionpolitica.it ; filosofico.net