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IL PAPA, JOE L'IDRAULICO E MASSIMO INTROVIGNE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Crisi economica, liberismo, etica e la via tracciata dall’enciclica "Caritas in Veritate". Innanzitutto: quali sono i rischi della semplificazione giornalistica?  
I giornalisti aspettavano un’enciclica economica, e hanno dunque letto la "Caritas in Veritate" – quando l’hanno letta – con un occhio attento quasi solo all’economia. In verità il primo punto essenziale dell’enciclica è precisamente questo: che la dottrina sociale della Chiesa non è soltanto socio-economica ma anche socio-politica. Beninteso, la politica – il Papa lo precisa – non è l’arte di compilare liste elettorali, ma è la cura per tutto quanto riguarda la polis.

Di recente pubblicazione è il suo ultimo libro: “il Papa e Joe l’idraulico” (ed.Fede e Cultura). Cosa vi trovano i cattolici, e cosa invece gli economisti liberali?  

Il libro – scritto a quattro mani con un economista, anche lui come me di Alleanza Cattolica, il professor Piermarco Ferraresi – è un commento all’enciclica alla luce anche del magistero precedente dello stesso Benedetto XVI. Penso che i cattolici ci trovino soprattutto questo: che la crisi economica è solo un aspetto di una crisi di civiltà più generale, che viene da lontano, le cui radici sono nel peccato originale e nei peccati attuali che si sono organizzati in ideologie prima e nella post-ideologia tecnocratica poi. Dunque la crisi economica non ha soluzioni soltanto economiche, ma è necessario uno sguardo morale e anche religioso.
Gli economisti contrari al collettivismo e allo statalismo tuttavia dall’enciclica hanno anche loro soddisfazione, perché il Papa è molto attento a ribadire che non si devono demonizzare l’economia e il libero mercato – e neppure la finanza, la globalizzazione, perfino la flessibilità e la delocalizzazione – perché tutte queste realtà hanno anche aspetti positivi e necessari, sono strumenti di per sé buoni che l’uso da parte di uomini avidi o scriteriati rende nel caso concreto cattivi.

Tenendo presente la Caritas in Veritate, su quali temi ci consiglia di aprire la riflessione? Come vede quella che esce dal contesto mediatico e che riguarda la personale interpretazione del contesto attuale?
Il Papa ci presenta un grande scontro fra la libertà e quella che chiama tecnocrazia, cioè la pretesa di esercitare un potere in base a un sapere tecnico o scientifico superiore che non accetta né il controllo democratico né il limite morale. Il primo campo di scontro, ci dice, non è l’economia ma è la bioetica. E il campo di scontro più vicino alla persona è quello della soluzione del grande dramma del XXI secolo che non è la disoccupazione – quantunque questa possa contribuirvi – ma la solitudine che genera depressione. E la solitudine non si cura con rimedi tecnici o d’ingegneria sociale, ma con un ritorno a una visione integrale della persona, che non può escludere la sua dimensione spirituale.
Devo dire che ho visto con piacere colleghi sociologi di sinistra e anche marxisti riconoscere che l’enciclica è molto più avanzata dell’attuale sinistra europea e americana, perché riconosce nella solitudine e nel male oscuro della depressione un grande problema sociale, il che di solito è cosa che sfugge completamente alle analisi marxiste e neo-marxiste.

 

Questa enciclica rompe con i temi più dottrinali delle due precedenti. Cosa resterà negli anni, oltre al legame con la contingente crisi economica?
Sarei cauto sulla “rottura” con i temi dottrinali. Il filo rosso che collega le varie encicliche è la denuncia del relativismo e l’appello a un legame costitutivo fra carità e verità. In questo senso sia l’amore di cui parla la prima enciclica Deus caritas est, sia la speranza di cui parla la Spe salvi, sia il desiderio di migliorare le condizioni dei popoli e delle persone cui fa riferimento la Caritas in veritate si riducono a gusci vuoti che possono essere riempiti arbitrariamente o a belle parole inutili e sentimentali se non hanno un preciso contenuto che può venire solo dalla verità – una verità che è insieme della fede e della ragione.

Per amore della verità vorremmo ribadire che in America e altrove la crisi  ha spesso connotati anche più drammatici che non in Italia. Ci può spiegare come mai la crisi economica americana ha interessato il nostro Paese solo di riflesso?  
Sono un sociologo che ha scritto un libro con un economista: non sono un economista io stesso. Mi sembra però  che ci sia un certo consenso su tre punti.
Primo: uno dei motori della crisi, l’indebitamento delle famiglie specie verso le società che gestiscono le carte di credito, in Italia è meno presente perché c’è un ethos nazionale che ha paura dei debiti e in particolare di questo tipo di debiti.
Secondo: anche i mutui subprime, concessi cioè a persone che danno pochissime garanzie e poi “cartolarizzati”, cioè rivenduti ai risparmiatori tramite strumenti finanziari, in Italia sono meno diffusi. Certo ci sono risparmiatori italiani che hanno comperato prodotti finanziari derivati basati su mutui subprime, ma si tratta di prodotti stranieri: un mercato italiano basato su mutui italiani non è in sostanza mai nato. Questo anche per merito, se così possiamo dire, della scarsissima produttività della nostra magistratura. Infatti il mutuo subprime negli Stati Uniti e altrove è concesso perché la banca sa che, in caso d’insolvenza del debitore, riesce a sfrattarlo nel giro di settimane o mesi dalla casa cui il mutuo si riferisce, ad acquisire l’immobile e a rimetterlo in vendita. Se negli Stati Uniti la domanda è “in quante settimane?”, in Italia grazie all’inefficienza del sistema giustizia la domanda sui tempi tecnici necessari a una banca di riacquisire e rivendere un’abitazione il cui proprietario non paga le rate del mutuo è piuttosto “in quanti anni?”. Questo ha frenato i mutui subprime e per una volta l’inefficienza dei magistrati ci ha portato un vantaggio.
Terzo: anche testi americani sulla crisi riconoscono che uno dei pochissimi politici ed economisti che l’avevano prevista era Giulio Tremonti, e credo sia giusto dare merito a lui e al governo di essere intervenuti molto tempestivamente.

Un tema totalmente diverso ma che crea lo stessogrande dibattito, anche a seguito della proposta di cittadinanza in 5 anni: Libertà religiosa, xenofobia e accoglienza. E' possibile stabilire il grado di integrazione e il grado di razzismo presenti sul territorio nazionale: la situazione è così allarmante?  
Vi è qui – lo hanno notato autorevoli giornalisti come Christopher Caldwell – un equivoco non solo italiano, ma più europeo che americano. Si confondono cioè il razzismo e la xenofobia con la cautela quando si mette mano alle leggi sulla cittadinanza, che non sono uguali né in tutta Europa né in tutto il mondo e si fondano su nozioni di cittadinanza secolari. Io non ho alcuna simpatia per il razzismo e la xenofobia. Ma non credo che per non essere razzisti o xenofobi si debba offrire la cittadinanza più largamente di quanto avviene oggi agli immigrati. Né possiamo fidarci dei “test d’ingresso” proposti, che già sono scarsamente selettivi in altri Paesi (in Gran Bretagna diversi terroristi li avevamo passati ed erano diventati cittadini) e che in Italia rischierebbero di essere… all’italiana. Le nostre norme sulla cittadinanza, già più generose per esempio di quelle tedesche, non abbisognano secondo me di essere cambiate, semmai di essere applicate con minori ritardi e disfunzioni burocratiche. Ogni forma di cittadinanza facile o allegra porterebbe all’afflusso rapido di centinaia di migliaia di nuovi cittadini, molti dei quali di religione islamica. Tanto per chiamare le cose con il loro nome, l’islam ha dimostrato di essere meno facilmente “solubile” nel modo di vivere occidentale, che so, del buddhismo degli immigrati cinesi (ma molti cinesi sono cristiani) o del cristianesimo folklorico di certi immigrati latino-americani. Chi afferma che i problemi dell’immigrazione vanno affrontati con un’ottica laica e la religione non c’entra inganna se stesso e gli elettori. In realtà se non vi fosse una massa così grande d’immigrati islamici, portatori di idee molto difficili da assimilare per le nostre società, e gli immigrati fossero tutti peruviani o coreani, i problemi sarebbero molto minori.

Possiamo ritenere utopico l’ideale laicista-relativista di sradicamento della fede cristiana dai gangli culturali, sociali e politici di questa epoca? Il dibattito a riguardo viene sostenuto con vigore da teorici del relativismo.
Il cristianesimo e in particolare la Chiesa Cattolica hanno mostrato una grande capacità di resistenza. Giovanni Paolo II e Benedetto XVI si sono rivelati punti di riferimento affascinanti e credibili sia per gli intellettuali sia per la gente comune e i giovani. Le statistiche variano da Paese a Paese, ma i sociologi sanno che la fede cristiana non è stata affatto “sradicata” e alcuni studiosi parlano al contrario di “ritorno” o di “rivincita”.

Al suo amico e collega Marco Respinti avevamo chiesto se libertari e cattolici vanno d’accordo. A lei vorremmo chiedere : Libertà dell’individuo e cristianesimo. Come ci indirizzerebbe nello studio di questo binomio?  
Benedetto XVI insiste sull’ambiguità della parola libertà. Tutti a parole sono per la libertà: se ne riempivano la bocca anche i responsabili di quello che il Papa nel suo viaggio nella Repubblica Ceca ha chiamato il “lungo inverno” del comunismo. Dunque non basta dire libertà. Occorre chiedersi: libertà per che cosa? Con quali contenuti? Per il cristiano e per l’uomo di retta ragione – ancora nella Repubblica Ceca il Papa cita espressamente Aristotele – la libertà ha un contenuto che è la verità: libertà e verità, ha detto Benedetto XVI a Praga, vincono insieme “o insieme periscono miseramente”. Una volta chiarito dunque che per l’eredità classica e cristiana la libertà non è anarchismo – neppure etico – o indifferenza ai contenuti, oggi la Chiesa Cattolica è una grande voce per la libertà. Lo è di fronte ai residuati, ahimé ancora presenti, del “lungo inverno” comunista. Ma lo è anche di fronte al nuovo inverno della tecnocrazia, che è qualcosa di molto simile al costruttivismo denunciato dai libertari. Infatti nell’enciclica Caritas in veritate il Papa precisa che la tecnocrazia non è solo un rischio della scienza ma anche del diritto e di certe forme di attivismo politico (fra cui cita il pacifismo ambiguo di alcune organizzazioni internazionali). Non c’è solo la tecnocrazia di alcuni ingegneri, c’è anche la tecnocrazia dei giudici, un tema che in Italia oggi è di grande attualità. Ci troviamo di fronte a giudici tecnocrati che dicono: i cittadini italiani hanno votato in un certo modo ma noi, i giudici, siamo detentori di un sapere superiore, ne sappiamo di più e possiamo rovesciare le loro scelte – forse anzi dobbiamo farlo perché abbiamo una funzione di pedagoghi rispetto al popolo ignorante che non capisce qual è il suo vero bene. Ma questa è precisamente la tecnocrazia – i detentori di un vero o presunto sapere tecnico, in qualunque campo, pretendono di esercitare un potere che nessuno controlla – che la voce del Papa è quasi sola a denunciare: in nome della verità, certo, ma anche della libertà.

C’è una strada espressamente antropologica?  
“La questione sociale è diventata oggi essenzialmente questione antropologica”, afferma la Caritas in veritate. Questa è la svolta che ci propone Benedetto XVI: rimettere al centro temi come la formazione integrale - contro la frammentazione del sapere –, la bioetica, la solitudine. Alla fine non ci salveranno le formule magiche e le costruzioni sociali ma una profonda attenzione alla persona.

Le va di lasciarci con qualche nota positiva indirizzata ai giovani?
Sono vice-responsabile nazionale di un’associazione – noi la chiamiamo agenzia – , Alleanza Cattolica, che ha come sua vocazione lo studio e la diffusione del Magistero dei Pontefici e l’applicazione dei principi che da questo Magistero si ricavano alla costruzione di una cultura cattolica, anche in campo sociale e politico. Potrebbe sembrare che questo sia lontanissimo dagli interessi dei giovani d’oggi. Non è così! Anche attraverso strumenti come Internet e Facebook – a proposito dei quali condivido il consiglio dello stesso Benedetto XVI che suggerisce di passare ovunque possibile dal primo contatto online a uno nell’interazione reale e faccia a faccia – incontriamo centinaia di giovani che sono molto interessati al messaggio del Papa. E come dimenticare l’epopea di Giovanni Paolo II che tra le sue ultime parole, morendo, ha detto ai giovani: “Io vi ho chiamato e voi siete venuti a me”? Sbaglia di grosso chi pensa che ai giovani vadano fatti sconti proponendo ideali poco esigenti. Ancora oggi è piuttosto l’eroismo ad affascinarli. Quello che incontrano in prodotti, anche alti e nobili, della cultura popolare – penso ai film tratti da Tolkien – ma anche quello in carne e ossa di testimoni come Giovanni Paolo II.

Saba Giulia Zecchi