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EPPURE LA CULTURA SERVE


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La risposta che cerco di dare in queste pagine è quella alla domanda posta dall'ottimo Angelo Crespi nell'editoriale dell'ultimo – ahimè - numero de Il Domenicale, l'unica rivista di cultura che era sopravvissuta nelle edicole italiane e che ha chiuso i battenti dopo otto gloriosi anni, trasformandosi in un allegato al quotidiano Il Giornale di Vittorio Feltri.
Quello che mi lega a Il Domenicale non è solo un rapporto di stima intellettuale verso chi, tra mille difficoltà, lo ha realizzato in questi anni, ma è anche un rapporto nato dalle coincidenze: senza Il Dom non avrei fatto degli incontri che poi si sarebbero rivelati fondamentali per alcuni bivi della vita, di cui ti accorgi solo dopo averli imboccati. Senza il Dom, ad esempio, non avrei mai conosciuto persone come Gabriele ed UT non avrebbe mai visto la luce per come la conosciamo. Per questi e per molti altri motivi sento il dovere di dare oggi – nel mio piccolo - una risposta ad Angelo.

Partiamo dall'idea più pessimistica: comunicare la cultura oggi significa rivolgersi ad un target elitario. Ma se un tempo l'élite intellettuale era spesso sinonimo anche di élite di potere, adesso non lo è più. Potere e cultura sono oggi ambiti ben distinti e spesso conflittuali. Come nota malinconicamente Crespi, oggi “l'élite colta è una retroguardia poco significativa”. Per veicolare i nostri messaggi, dunque, abbiamo apparentemente solo due strade: confrontarsi con la cultura di massa o percorrere la tortuosa strada dell'élite emarginate dal dibattito trash.

La prima strada, ci pone l'inevitabile confronto con altri fenomeni di massa per antonomasia: i partiti e la comunicazione. Se i partiti di massa sono solo ricordi da museo, la comunicazione di massa non se la passa neanch'essa molto bene e, causa la meticolosa personalizzazione del messaggio, oggi, rispetto a qualche anno fa, fa più fatica a giungere a destinazione. Il fatto incontrovertibile è che l'attuale cultura di massa propende per l'idea che la cultura stessa sia inutile: la superficialità della letteratura contemporanea, del mezzo televisivo e dell'industria culturale in genere ha toccato livelli di relativismo mai raggiunti prima. Tuttavia la cultura autentica, anche volendo, non può essere di massa. Come non è possibile che un governo eletto sia liberale (diceva Von Mises), perché ciò andrebbe contro la sua stessa natura di auto-conservazione, così la cultura (quella vera e non quella deteriore della società dello spettacolo) non può essere di massa per definizione. Diffidate dunque di chi vi parla di cultura di massa, perché probabilmente non starà parlando di qualcosa di buono.
Non ci rimane dunque che la seconda strada: il ghetto. Far parte di un'élite ai margini del dibattito nazionale che si affanna a legittimarsi senza ricevere mai riscontro.

Anche in questo campo, negli Stati Uniti
se la passano meglio: i think tank privati sono dei veri serbatoi di pensieri e risorse intellettuali per la politica e per la società. Sono ascoltati e temuti, letti e rispettati. In Italia, esiste invece un'altra cultura, la più pericolosa ma anche la più veicolata: è la cultura viziata dai soldi prelevati ai taxpayers.
La cultura polverosa dei teatri vuoti ma finanziati con i soldi pubblici, la cultura delle produzioni cinematografiche markette di un partito o sfizio di quel regista radical chic, non appartiene all'élite ma appartiene alla cultura “di regime” alimentata dai soldi pubblici: è questa la cultura che non “serve” a nulla se non a soddisfare qualche boria salottiera.
L'antitesi della cultura viziata è la cultura che “serve”, è la cultura di chi “produce” cultura senza finanziamenti e, nonostante questo sta sul mercato, e ci sta bene. La cultura di quelle produzioni (letterarie, teatrali, artistiche in genere) che hanno riscontro non solo nell'élite del ghetto ma anche in una élite più allargata.

 

La cultura è sana quando è sano il messaggio, e la buona salute di quest'ultimo coincide puntualmente con la buona salute - e la volontarietà - del ricevente.Un pubblico sano consumerà cultura sana, non viziata dalla longa mano dello stato, né figlia del pensiero nichilista, né prerogativa del trash a buon mercato.
Ancora una volta è il mercato che può aiutare a dirci quando la cultura serve, coinvolgendo stavolta anche l'élite del ghetto, a formare un'inedita alleanza. Stiamo parlando di quella cultura che ha. tra le sue finalità, quelle di appassionare, di far riflettere, di insegnare, di divertire e – perché no? - anche di trarre profitto naturalmente. Insomma, di stare dalla parte sia del giusto che del bello. In un approccio anti-relativista e sostanzialmente estetico vince la cultura che sta sul mercato e può vincere sia contro l'assolutismo dei fenomeni deteriori di massa, sia contro la cultura di stato che ha bisogno delle tasse per vivere senza però essere mai consumata da un pubblico che non la vuole.

Caro Angelo, eppure la cultura serve davvero. Abbiamo già vinto molte battaglie e certe egemonie – come scrivi – sono solo un brutto ricordo. Ma adesso la cultura deve vincere la sua battaglia più grande: non più contro gli intellettuali engagè in estinzione, ma contro il potere di chi propaganda il trash e, con i soldi estorti con le tasse, pretende di finanziare una cultura che ha persino l'arroganza di definire tale. Contro tutto ciò però c'è il mercato e chi vuole fare cultura perché la cultura serva davvero. A fianco ci siamo anche noi.

 

D.M.