Più tasse per tutti: si parte con i redditi finanziari

Nessuno ne parla eppure possiamo già dare per certo un consistente ed inedito aumento delle tasse targato governo Prodi: quello del 20% sulle reddite finanziarie.
Nonostante tutti i paesi maggiormente industrializzati utilizzino una tassazione maggiore della nostra sarebbe opportuno mantenere una situazione di privilegio per sostenere il nostro debole sistema finanziario.

<p><p>In questi giorni stiamo assistendo al dibattito politico sulla legge di bilancio 2007, meglio nota come legge finanziaria, e allo scontro tra i partiti della maggioranza in tema di aumento della pressione fiscale. Nessuna (o quasi nessuna) parte politica manifesterà esplicitamente la volontà di aumentare il prelievo nelle tasche dei cittadini, tuttavia possiamo dare con certezza la notizia dell'aumento dell'imposta sui redditi finanziari. Gli indizi sono due: assenza di dibattito su tale ipotesi e velocità con cui essa è entrata ed uscita dall'agenda del governo.
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Siamo quindi di fronte all'ennesimo aumento delle tasse, all'ennesimo tentativo di coprire il disavanzo pubblico ricorrendo ad un maggiore sforzo dei cittadini-contribuenti? Beh, la risposta è affermativa, anche se con qualche precisazione.
Infatti l'introduzione dell'aliquota unica del 20% non deve essere considerata come la giusta mediazione tra le due aliquote esistenti, del 12,5 e del 27 per cento. La situazione cambierebbe notevolmente.
Prima di vedere quali potrebbero essere le motivazioni che hanno portato a questo tipo di decisione, sarà il caso di spiegare quale è il sistema attuale dell'imposizione sui redditi finanziari.
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Innanzi tutto precisiamo che la maggior parte dei media utilizza un termine non completamente esatto, quello di 'rendite'. Non si tratta di un vero e proprio errore ma di una imprecisione che è sempre meglio non fare (la rendita è una categoria di prodotti finanziari); quindi meglio parlare di redditi finanziari e non di rendite per indicare un qualsiasi guadagno derivante da un investimento finanziario. Dicevamo della tassazione vigente e delle due aliquote: 12,5% e 27%. La prima si applica a tutte le situazioni finanziarie rilevanti (azioni, obbligazioni, fondi comuni…) e che sono importanti per l'attrazione di capitali esteri mentre la seconda è prevista solo nel caso dei conti correnti e dei depositi bancari (e strumenti affini come ad esempio i libretti postali). La differenza tra le due categorie colpite è un'anomalia del tutto italiana e deriva dal sistema IRPEF degli anni '70.

Tanto per chiarire: non c'è alcun motivo che giustifichi questo sistema: nè se consideriamo il momento del pagamento del tributo da parte dell'investitore (anche in questo senso il nostro sistema tributario è tutto da rivedere…) nè se osserviamo le differenze tra gli strumenti compresi nelle due categorie: infatti gli interessi di un titolo di Stato (un B.O.T ad esempio) sono giuridicamente equiparabili agli interessi del conto corrente! Di conseguenza l'introduzione un'aliquota unica era da tempo auspicabile e già in campagna elettorale se ne era parlato. Quello che avevamo accennato prima, e che è bene sottolineare, è che l'aliquota al 20% rappresenta di fatto un incremento della pressione fiscale.

Nonostante tutti i paesi maggiormente industrializzati utilizzino una tassazione maggiore della nostra (raggiungendo una media del 20-21%) sarebbe opportuno mantenere questa situazione di privilegio per sostenere il nostro debole sistema finanziario. Si potrebbe allora pensare di portare la pressione complessiva tra il 15 ed il 16 per cento ma l'allineamento ai valori medi europei potrebbe avere brutte conseguenze rispetto a vantaggi modesti.

L'incremento del gettito fiscale previsto dal Ministero dell'Economia varia dai 2,5 ai 3,5 mld di euro l'anno; si tratta di una cifra notevole ma pur sempre l'1,7% circa delle entrate tributarie annue. Conseguenze negative si avrebbero per i risparmiatori-investitori italiani, sia piccoli sia grandi, con perdite nette nei vari portafogli d'investimento notevoli; ma non dobbiamo scordarci degli investitori stranieri: e non mi riferisco ai comuni cittadini ma agli investitori istituzionali che muovono le grandi cifre.
Infatti, come tutti sappiamo, l'Italia è un paese dal debito incredibilmente alto e questo è già di per sè un forte disincentivo all'investimento nei titoli dello Stato; perdendo il privilegio della tassazione moderata di cui hanno goduto fino ad ora, questi investitori saranno spinti a scegliere paesi diversi dall'Italia e noi (lo Stato) potremmo essere costretti a pagare tassi d'interesse ancora più alti. Percio il vantaggio iniziale goduto dallo Stato (tutto a scapito dei contribuenti) sarebbe soltanto illusorio di fronte a questo tipo di conseguenze.

Ragionamenti analoghi possono essere fatti per i titoli aziendali con l'effetto di impoverire ulteriormente la nostra già piccola e marginale Borsa.
La nostra idea è allora di sperare in un ripensamento su questo provvedimento ferma restando tuttavia l'esigenza di semplificare il sistema impositivo sui redditi finanziari attraverso l'aliquota unica.

Simone Scarlini